venerdì 23 marzo 2012

(Anno XI    n° 1  del 15.03.2012)

Il centenario di Pascoli.

Gli anni messinesi del grande poeta. Il parallelismo con Dickens

di Giuseppe  Di Giacomo




Ricorre quest’anno un anniversario importante per la storia della letteratura del nostro Paese: il centenario della morte di Giovanni Pascoli, uno dei nostri maggiori poeti del Novecento (morì a Bologna il 6 aprile 1912 di cirrosi epatica, all’età di 57 anni). Per singolare coincidenza, nello stesso anno si celebra anche un altro interessante anniversario, il bicentenario della nascita di Charles Dickens, il più amato e popolare scrittore inglese, secondo per fama ed importanza solo a Shakespeare (è nato a Portsmouth il 7 febbraio 1812, morì a Rochester il 9 giugno 1870, all’età di 58 anni).

Due personalità certamente diverse ma che presentano sorprendenti analogie. Entrambi sono, infatti, legati da un comune filo di sofferenza e inquietudine a motivo delle dolorose vicende vissute nell’infanzia e nell’adolescenza, che incisero fortemente sulla loro sensibilità e che costituiscono la base stessa delle loro opere.

Pascoli nacque in S.Mauro di Romagna (oggi S.Mauro Pascoli) il 31.12.1855. La tragica morte del padre, ucciso a tradimento da uno sconosciuto mentre “tornava al suo nido” da una fiera, quando il poeta aveva 12 anni (tragedia evocata nella celebre e drammatica poesia La cavalla storna e in X Agosto), e altri lutti familiari successivi, influirono sul temperamento sensibilissimo di lui, gettando un’ombra di tristezza su tutta la sua vita.
Giovanni studiò nel Collegio degli Scolopi a Urbino; poi frequentò l’Università di Bologna dove ascoltava con fervore le lezioni di Giosuè Carducci, che prediligeva quel discepolo predestinato al dolore e alla gloria (gli succederà dal 1907 al 1912, anno della sua morte). Dopo crisi economiche e peripezie politiche, prese finalmente la laurea e iniziò quindi l’insegnamento, spostandosi in mezza Italia. Fu a Matera, Massa, Livorno, Bologna, Messina e Pisa.
Anche Dickens trascorse un’infanzia misera e infelice e anche lui, a 12 anni, rimase vittima di un’esperienza traumatica che lo segnò per tutta la vita: il padre, John, fu arrestato per debiti e richiuso- insieme con la famiglia, come si usava allora- nella prigione di Marshalsea, a Londra. Charles conobbe la povertà e la fatica che abbrutisce. Seppe narrare con arte raffinata ed incisiva le sue peripezie giovanili, seppur trasfigurate, in David Copperfield (1850), Oliver Twist  (1838) e in La Piccola Dorrit (1857). Come in Pascoli, le fatiche vissute da bambino gli hanno affinato le sue eccezionali capacità di osservare e raccontare l’infanzia come pochi altri scrittori hanno saputo fare.
Pascoli è il poeta amato che ci ha accompagnato negli studi fin dall’adolescenza. Chi non ricorda le celebri poesie La quercia caduta, Arano, La Piccozza, I due fanciulli, Pioggia, X Agosto, L’aquilone, Valentino vestito di nuovo e tantissime altre liriche intrise di emozioni, dense di suggestioni e anche di saggezza. Egli cantò, infatti, la natura in tutte le sue manifestazioni più vere e schiette, cantò la patria, la fraternità, la bontà umana, la nostalgia e l’anelito verso un mondo migliore, fatto di sogni e di amore.
Una delle tappe fondamentali della vita e dell’opera di Pascoli fu il soggiorno a Messina.Vi giunse nel gennaio 1898 per restarvi fino a tutto il 1902 (un quinquennio di intensa attività e creatività, durante il quale pubblica I Primi Poemetti e I canti di Castelvecchio).
Con Decreto Regio del 29 ottobre 1897 aveva ottenuto, infatti, la nomina a professore ordinario “per meriti speciali” (secondo la Legge Casati) di Letteratura Latina presso la Facoltà di Lettere dell’Università, che prevedeva uno stipendio annuo di cinquemila lire.  Gli fu anche conferito l’insegnamento di Grammatica latina e greca nella Scuola di Magistero, oltre al Corso libero di conferenze dantesche per l’anno accademico 1900-1901. L’Università lo accolse con grande onore, tanto che il rettore Oliva manifestò “la somma ventura di avere, nel suo Ateneo, il professore Giovanni Pascoli”.
Giunse a Messina con la sorella Maria (Mariù) e il cane Gulì. Il 25 gennaio 1898 Maria scriveva alla sorella Ida: “Dunque siamo a Messina, città che per molte cose ricorda Livorno, ma non per la nettezza delle strade e per la lingua. Io non capisco niente di quello che dicono questi messinesi”. Per i primi sei mesi trovano casa al n. 66 di via Legnano (incrocio corso Garibaldi), nei pressi di via delle Concerie (oggi via E.G.Boner), una zona poco felice allora per la presenza di fornaci e concerie che sprigionavano giorno e notte fumi e odori sgradevoli. Qui l’amata e premurosa sorella accudiva il fratello, curandolo quando necessario, come quando Giovanni contrasse il tifo a marzo, dopo aver mangiato cozze crude ai Laghi di Ganzirri, come ben evocato nella poesia La mia malattia (Canti di Castelvecchio), dove scrive: “L’altr’ anno ero malato, ero lontano, a Messina: col tifo. All’improvviso udivo spesso camminar pian piano, a piedi scalzi. Era Maria, col viso tutt’ombra, dove un mio levar di ciglia gettava sempre un lampo di sorriso”.
Dalle lettere di Maria di questo periodo si rileva che il poeta ebbe diverse ricadute di tifo, ma- a suo dire- senza intaccare il fisico, che si sarebbe dimostrato forte. Si vedrà in seguito, invece, che il suo organismo ne risentì molto, con esiti che andavano dai tremori fisici a disturbi psichici vari e con conseguenze sul suo equilibrio psico-fisico generale. Per tale accidente Maria, scrivendo a Ida, manifestava “odio” per la città, “dal suo bel cielo sempre nuvolo e l’aria che puzza di conceria e di gas”.
Dopo la partenza della sorella, il poeta andava ad abitare in un appartamento nel Palazzo Sturiale di Piazza Risorgimento, in centro città. “L’alloggio è moderno, abbastanza vasto e sicuro, i mobili vi fanno una figura straordinaria, specialmente dopo le innovazioni che faremo io e te”, scriveva a Mariù il 19 ottobre 1898. La nuova casa gli dava un maggior senso di sicurezza, la struttura gli appariva robusta e rassicurante. E vide giusto, dato che la casa resisterà al disastroso sisma del 1908, insieme al servizievole portinaio Giovanni Sgroi (“guercio, zoppo e piccolo”), definito dal poeta “aborto di Polifemo”.
Nonostante il miglioramento della situazione abitativa, un certo malessere- dovuto a cause ambientali e accessi di nostalgia- serpeggiava nella sua mente. Il 14 giugno 1900, scrivendo al suo amico Luigi Pietrobono, si lamentava del clima, manifestando anche sofferenza interiore: “Che caldo!, Che afa! Che polvere! Che struggimento! Quanto sono lontano! Come sono solo! Non ne posso più”. E per mitigare il disagio della solitudine il poeta si dedica al vino, alle “botticelle di Messina” di marsala, precipitando così gradualmente nel vortice dell’alcolismo. Ma nell’aprile 1901 i toni cambiano: “Io sono qua, e sono quasi allegro. Devo fare un nuovo volume dantesco e correggere per la 2° edizione le mie due antologie”. Sarà un editore messinese, Vincenzo Muglia, a pubblicare gli ultimi due volumi della sua triologia di studi danteschi. Nel 1902 Muglia pubblica una importante raccolta- in edizione definitiva- di dodici saggi del poeta, Miei pensieri di varia umanità, tra cui Il Fanciullino, il manifesto  poetico pascoliano che lo renderà famoso ed in cui enuncia la sua visione del mondo, la riscoperta dell’infanzia, la necessità che il poeta si ponga come un “fanciullino” di fronte alla realtà per poter cogliere con la massima immediatezza la poesia delle cose.
A Messina pubblica la seconda raccolta di poesie, dopo Myricae; I Primi poemetti. E a Messina nasceva una delle più belle e popolari poesie pascoliane, L’Aquilone, il suo canto prediletto (“C’è qualcosa di nuovo oggi nel sole, anzi d’antico”…): lirica del 1900 inserita in  Primi Poemetti, in cui il passato della sua infanzia trascorsa al Collegio di Urbino (dal 1862 al 1871) in mezzo ai campi di viole e “l’aria celestina” che avvolgevano il Convento dei Cappuccini, sul monte della Versa ( risalente al XIV secolo, e il cui tetto è parzialmente crollato sotto il peso della neve lo scorso febbraio). La studiosa Anna De Simone osserva come la lirica nasca dalla contaminazione modernissima di due piani temporali: il presente che si dilata per uno scambio delle parti con il passato, l’altrove, che riaffiora improvviso nella luce di una precoce primavera siciliana attraverso un gioco di corrispondenze sensoriali. Anche i “dolci suoni di chiesa” de Le ciaramelle trovano ispirazione nelle nenie degli zampognari particolarmente attivi a Messina nel periodo natalizio. E durante il soggiorno messinese prendono forma “I Canti di Castelvecchio” (dove sono presenti alcune poesie scritte a Messina come Gelsomino notturno, L’ora di Barga,La piccozza…)., che saranno pubblicati nel 1903 quando già insegnava all’università di Pisa,  mentre continuano i suoi successi di poeta latino, vincendo spesso il primo premio nel concorso internazionale di Amsterdam. A Messina il poeta compose anche altre liriche, testi danteschi, saggi storici e varie piccole opere (Il vecchio castagno, l’Accestire…), a cui si aggiungono le iscrizioni in latino in memoria degli scienziati Malpighi e Borelli, poste nell’Università.
Tra voci e documenti relativi al suo soggiorno messinese, si scopre anche l’esistenza di una presunta love-story del poeta con una sua allieva, di cui esiste memoria in città. Si tratta della sua giovane e bella studentessa Giovanna Perroni Marcianti, che abitava proprio di fronte ala sua casa, e che su “Il Mondo” del 6 ottobre 1959 confermava tale circostanza, ricordando il gioco di sguardi e di attenzioni che egli le rivolgeva durante le lezioni. Ma si trattò solo di un innamoramento platonico che non  ebbe alcun seguito, sia per la notevole  differenza di età tra i due sia per la particolare vocazione al celibato che lo caratterizzò sempre. Il periodo messinese è legato anche ad un intenso impegno civile e patriottico, con conferenze di carattere sociale, politico, civile ed etico-religioso. Ricordiamo solo due eventi. Un inno che Pascoli compose in occasione dell’inaugurazione del monumento alla Batteria Masotto (1899), alla presenza del Duca d’Aosta. E la lapide scritta in occasione del cinquantenario della battaglia di Milazzo tra garibaldini e i Borbone avvenuta il 20 luglio 1860, e posta sul ponte di Milazzo.
A Messina Pascoli godette dell’amicizia e della solidarietà di tanti amici e colleghi, che crearono attorno a lui un clima amichevole e accogliente, in grado di fargli superare la innata ritrosia e timidezza. Tra questi ricordiamo: il “cordialissimo” Vittorio Cian, insigne critico e storico della letteratura italiana, che lo aiuterà in seguito a farlo nominare all’Università di Pisa dal 1903 al 1907, allorché passò all’Università di Bologna per succedere al Carducci nella cattedra di letteratura Italiana. E poi anche Giovanni Noè, deputato socialista, noto per aver fondato i “Fasci” di Messina insieme a Petrina; il figlio del poeta Tomasso Cannizzaro, il diplomatico Franz Cannizzaro; l’italianista Dino Provenzal; l’insigne grecista Alessandro Michelangeli e il latinista Antonio Restori, rettore del Convitto Dante Alighieri.Un suo grande amico e conterraneo (forlivese) fu anche il filologo Manara Valgimigli,anche lui allievo di Carducci, che aveva ottenuto la cattedra di latino e greco al Convitto Dante Alighieri e poi al Liceo Maurolico proprio per interessamento del poeta. “Debbo a lui il mio primo pane guadagnato”, ricorderà con gratitudine. Spesso i due andavano a passeggiare in riva al mare, nella zona di Maregrosso (certamente in condizioni migliori rispetto al degrado di oggi!). Godette anche dell’amicizia “affettuosa e inalterata” dello scrittore, poeta e italianista G.A Cesareo, a cui lo legava anche una “concordanza segreta del sentimento sociale e umano”.
Tra gli allievi più noti di Pascoli ricordiamo il canonico Salvatore de Lorenzo Minutoli (1874-1921), distintosi nell’opera di carità e assistenza a favore degli orfani del Terremoto del 1908 e autore dell’unica tesi di laurea di cui fu relatore il poeta romagnolo, dedicata alla poetica virgiliana (che verrà presto pubblicata); poi Federico Rampolla del Tindaro (1855-1934), studioso del Meli, apprezzato docente di lettere italiane nell’Istituto tecnico “Jaci”, nella stessa classe che aveva come allievi futuri personaggi destinati a grande fama, come Salvatore Quasimodo, futuro Premio Nobel, il grande giurista e umanista Salvatore Pugliatti, poi rettore dell’Università; Giorgio La Pira, il sindaco “santo” di Firenze, e infine Giuseppe Rizzo Tarauletti, docente di latino e greco al Liceo Maurolico e in seguito alla Facoltà di Lettere dell’Università nei corsi del Pascoli. Il periodo messinese si chiude di fatto nel novembre del 1902, quando il poeta ottiene dall’Università un congedo di due mesi, che sarà rinnovato, fino al trasferimento all’Università di Pisa, dove insegnò dal 1903 al 1905, e in seguito a Bologna, nella cattedra di Carducci. Il grande poeta fu sepolto a Castelvecchio di Barga (oggi Castelvecchio Pascoli), comune di Lucca, il suo adorato luogo di “desiderio e struggimento”, dove amava trascorrere felici periodi di spensierato riposo.Tracce tangibili della sua presenza a Messina sono: una via adiacente a via Cannizzaro, un busto dello scultore Tore Calabrò, posto nel corridoio del rettorato dell’Università, una targa commemorativa posta a fianco del Palazzo Sturiale e una lapide sul palazzo di via Legnano e una scuola media di antica istituzione.
Giuseppe Di Giacomo